Sapessi com'è strano sentirsi un po' Maigret a Milano
di Redazione Mondadori Store
2 dicembre 2015
Trasferite il commissario Maigret dal “porto delle nebbie” al nebiùn della Milano dei primi anni Cinquanta. Sostituite la pipa con il toscano, i boulevard di Parigi con i viali del capoluogo lombardo ancora segnati dalle ferite della guerra. A restare immutato, invece, è l’amore per la buona tavola e lo sguardo disincantato del tutore dell’ordine che ne ha viste tante e nonostante tutto, o forse proprio per questo, non ha rinunciato alla propria umanità.
Intorno a Mario Arrigoni, capocomissario di Porta Venezia (che è come dire arcimilanese, meneghino al quadrato), si muove una Milano impegnata a ricostruire ma non ancora toccata dalla febbre dal boom, dove insieme a fabbriche e uffici riaprono anche i teatri, come il Piccolo di Strehler; dove le auto sono poche e ci si sposta in tramvai e tutt’al più in Vespa; dove brunch ed happy hour non sono stati ancora inventati e al massimo nelle fumose osterie si può mangiare un panino, anzi, un sanguis, traslitterazione nostrana di sandwich.
Quello che per Maigret è Simenon, per Arrigoni è Dario Crapanzano, ex pubblicitario settantaseienne che, dopo avere pubblicato con l’editore genovese Frilli le prime indagini del suo “Montalbano padano”, è passato a Mondadori, arrivando, tra nuove uscite e riedizioni, a piazzare i casi di Arrigoni ai primi posti delle classifiche. Di tutta la Penisola, va detto, perché non occorre certo essere nati all’ombra della Madonnina per lasciarsi conquistare dal commissario di Porta Venezia e dal suo metodo d’indagine e per perdersi insieme a lui tra le atmosfere, gli odori, i sapori della Milano dei primi anni del Dopoguerra. I milanesi ammazzano al sabato, era il titolo di un famoso romanzo del grande Giorgio Scerbanenco (ripreso anche da un disco degli Afterhours di alcuni decenni dopo).
Nella Milano di Arrigoni, invece, si uccide tutti i giorni. Si uccide in piena estate e in pieno centro, anzi, nel “salotto buono” di una città da cui ancora si parte per “andare in villeggiatura”: succede in Arrigoni e il delitto di via Brera, dove la vittima è un pubblicitario di successo legato a una sua bella e giovane dipendente da rapporti non puramente lavorativi. Si uccide la Settimana Santa, come in Arrigoni e l’assassinio del prete bello, con un sacerdote tanto avvenente quanto chiacchierato trovato senza vita su una panchina di piazzale Bacone alle sei di mattina del Venerdì Santo del 1953. Si uccide per passione nelle case di ringhiera di Greco, in zona Naviglio Martesana: è qui che si alza il sipario di Arrigoni e la bella del Chiaravalle, dove la bella del titolo è Carolina detta Lina, in arte Wilma, che ha abbandonato le risaie per esercitare il mestiere più antico del mondo in un “casino”, come allora si chiamavano le case di tolleranza, a due passi dal Duomo.
Spesso si affacciano le ombre lunghe del passato, come in Arrigoni e l’omicidio di via Vitruvio, imperniato sull’assassinio di un attore e impresario teatrale con trascorsi nella polizia segreta fascista. Un mondo, quello del teatro, che Crapanzano conosce bene, visto che dopo la laurea in Giurisprudenza si è diplomato all’Accademia di Arte Drammatica di Esperia Sperani, avendo come compagna di corso Mariangela Melato, e ha battuto le piazze leggendo in pubblico, con qualche decennio d’anticipo su Benigni, i canti della Divina commedia.
A proposito: un peccato, seppure veniale, ce l’ha anche Dario Crapanzano. Non resiste alle portinaie. In ogni libro, confessa, ce ne mette sempre una. Perché sono utilissime alle indagini, raccolgono e sollecitano confidenze, trasmettono messaggi. Eh, sì, erano loro, occhiute e sferruzzanti dentro le loro guardiole, il social network di quella Milano che non c’è più.
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