Come riflessa in uno specchio deformante, la relativa emancipazione raggiunta dalla donna romana fra I e II secolo d.C. appare demonizzata nel verso di Giovenale, che della 'depravazione' femminile allestisce un convulso ma potente affresco, in cui le figure si contorcono sotto la spinta di un acre umorismo 'nero', di un sarcasmo devastante che insiste sul grottesco delle situazioni, fino ad arrivare a squarci di pathos tragico. In realtà, quel che veramente irrita e disturba Giovenale è lo spazio di libertà conquistato dalla donna a scapito e per colpa di un maschio sempre più debole e 'femminilizzato', ma in primo piano appare - grazie a un maligno 'escamotage' di sicuro effetto che, tuttavia, non riesce sempre a dissimulare la sua tendenziosità - il tema della pretesa, disgustosa sfrenatezza sessuale della femmina, rappresentata secondo uno stereotipo che la vuole 'animale' di malcerta razionalità e, soprattutto, di potenza sessuale decisamente superiore al maschio: capace di dominarlo in forza di una energia vitale che l'uomo non possiede e che gli incute inquietudine e timore, ora che non è più in grado di arginarla, come invece accadeva in un passato felice, quando la donna viveva relegata nel suo ruolo di 'fattrice' di figli e di compagna sottomessa dell'uomo.
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