Nel liceo in cui insegna la professoressa si parla romano, e la struttura è abitata da strani animali: alcuni disegnati sui muri, alcuni umani ma dalle cui bocche escono suoni incomprensibili alla professoressa che non ha mai pensato di avere la vocazione all'insegnamento, e invece ce l'ha, solo che non è una vocazione, è un mestiere. La professoressa infatti non ama la vocazione. La professoressa è un'intellettuale. La professoressa ha studiato in Italia e all'estero. La professoressa cammina, cammina, cammina perché Roma è grande e perché camminando lei pensa. Gli studenti e le studentesse, invece, non camminano, vanno in motorino o in macchina, e non studiano, di certo non in Italia, anche se qualcuno di loro viene da altri paesi. Gli studenti e le studentesse - e tutti lo siamo stati - sanno valutare, pesare le persone che siedono dietro la cattedra e, nonostante non abbiano voglia di aprire i libri, sentono, piano piano, il desiderio di studiare la professoressa, e di esserne studiati. Danilo Dolci ha scritto che si cresce solo se sognati, e Gaja Cenciarelli in questo romanzo chiosa che si può crescere anche se sei l'incubo di qualcuno, convinta sì che la cultura sia qualcosa di quotidiano, convinta sì che certe parole dialettali o certe squadre di calcio, certe sigarette fumate insieme agli studenti prima che l'ora di lezione cominci facciano parte del lavoro di chi insegna e di quello di chi impara, ma disillusa che l'istruzione possa - come si sente dire spesso - salvare il mondo. Ciò nonostante, in questo romanzo di Shakespeare e spaccio, la professoressa il mondo lo salva. Perché il mondo è le persone che incontriamo. Specialmente a scuola.
Anonimo -