"Nelle desolate vastità di un'angusta cella", fra il 1945 e il 1947, Carl Schmitt si trovò a scrivere questo libro, il suo più intimo e personale, dura resa dei conti con se stesso e con l'epoca. Il più controverso, ma anche uno fra i più grandi giuristi del nostro tempo, guarda indietro ai suoi anni e ai secoli in cui è fiorita e sfiorita la dottrina a cui per tutta la vita si era dedicato: lo 'ius publicum Europaeum'. Ma, per parlare di se stesso, Schmitt parla di altri, di certe figure che hanno accompagnato, più o meno segretamente, tutta la sua vita, qui evocate in pochi tratti che toccano subito l'essenziale: Tocqueville, ma anche Stirner; Kleist, ma anche Daubler; Bodin, ma anche Hobbes. Figure fra cui si formano contrasti laceranti, quelli appunto in mezzo a cui Schmitt ha operato e ha pensato. "Ho conosciuto le escavazioni del destino,/ vittorie e sconfitte, rivoluzioni e restaurazioni,/ inflazioni e deflazioni, bombardamenti,/ diffamazioni, mutamenti di regime.../ fame e freddo, campo di concentramento e cella d'isolamento". E in quella ultima solitudine si elabora la "sapienza della cella" che parla in queste pagine pubblicate in Germania nel 1950 e mai più ristampate, per volontà dell'autore, il quale per altro considerava "Ex Captivitate Salus" un 'libro chiave'.
Anonimo -