«Sono finiti i caffè letterari, il colloquio stesso» confida Sciascia a Domenico Porzio. «Eppure colloquiare significava non soltanto chiacchiera, ma esperienza, urbanità». Ed è come se questo libro, che registra incontri avvenuti lungo il 1988 e il 1989 e interrotti dalla morte dello scrittore, i due amici lavessero disegnato proprio per scongiurare la fine del libero colloquiare, la dilagante riduzione a intervista della conversazione. Provocato dalla inesauribile curiosità di Porzio, stimolato da un dialogo mutevole, schietto, indisciplinato, Sciascia parla con unasciuttezza in cui il fervore è schermato dal riserbo e dalla precisione, offrendoci inattesi squarci sulla sua infanzia, quando il 2 novembre i bambini ricevevano i regali dei morti; sulla biblioteca della zia maestra e sul teatro di Racalmuto, responsabili della sua divorante passione per i libri e il cinema; sui drammi che lhanno segnato, come il suicidio del fratello, cui è seguita quella che con ammirevole pudore definisce «una sequela di guai»; sullimpiego al Consorzio agrario, che gli ha assicurato «il primo impatto con la giustizia». Ma, insieme, vengono alla luce anche tutti i suoi amori: oltre ai libri, Parigi, il Settecento, Stendhal, Savinio, su cui ha pesato litalica «avversione allintelligenza», Borges, Pirandello, «incontrato nella natura, nei luoghi». E i segreti della sua officina, come la mescolanza dei generi suggeritagli da Malraux, che vedeva in «Santuario» di Faulkner «la tragedia greca ... calata nel romanzo poliziesco» incluso il più spiazzante ed efficace: «Per me scrivere è una cosa allegra».
Anonimo -