Era la fine del 1971 e Carley Mo, parlando di buoni propositi per l'anno nuovo, così si rivolse all'amico Gianni Brera: "Scrivi presto il romanzo che hai promesso al conte B.: esci dai finti boschetti del Risorgimento e scendi dalle groppe dei finti cavalli indiani. Devi scrivere. E non dimenticare neppure il vescovo Rovati, la cui storia finisce con un tonante: "Et cum spiritu tuo!" mentre lui, il vescovo, scoppia in una grande risata ebete scrollando la testa, per annuire, come un cavallo che voglia togliersi di torno i tafani di luglio...". Brera lasciò passare un po' di tempo però finì per dar retta all'amico Carley e scrisse la storia del vescovo Rovati, la storia ambientata in quella striscia di terra della campagna pavese, tra il Po e l'Olona, dove si trova il podere della Speziana. E' un posto cupo e sinistro la Speziana, dove succedono nefandezze e turpitudini, delitti mostruosi. E non certo per caso, ma perché da quelle parti pare che il Maligno abbia deciso di eleggere residenza. Ne conseguono tristi fatti: incesti, parricidi, casi di poligamia, battesimi sacrileghi, tragiche morti di innocenti. Il mio vescovo e le animalesse è il romanzo che Brera covò per anni, che raccontò agli amici e a se stesso come per metterne alla prova la tenuta e misurarne il respiro. E' il libro al quale teneva di più. E non è un modo di dire, ma semmai un modo di scrivere. Forse in nessuna altra occasione l'inimitabile stile di Gianni Brera aveva raggiunto una tale, viva, sanguigna, corposa, sicura e animale felicità. Mai gli era stata così lieve la penna.
Anonimo -