Ogni emigrazione è una rottura fondamentale nella vita. Sradica una persona, la rende priva di voce, sola e invisibile. Con spietata onestà, Günther Anders racconta la vergogna sperimentata nella propria esistenza da esule, vittima della persecuzione nazista, costretto a emigrare perché ebreo. Il suo brillante saggio uscito su rivista nel 1962, pubblicato ora per la prima volta in volume e mai tradotto in italiano getta nuova luce sulla principale «miseria morale» del XX secolo. Come mostra programmaticamente il titolo, la figura al centro è quella del soggetto migrante, che non vede se stesso come «immigrato», dunque proiettato su un luogo di arrivo, ma sempre in relazione alla propria origine e al proprio passato perduto. Nonostante le differenze di circostanze storiche tra lemigrazione indotta dai regimi totalitari del Novecento e quella del nostro mondo globalizzato, questo breve e folgorante scritto ci porta direttamente al presente, un tempo in cui osserva Anders la fuga e lesilio non sono più casi isolati o estremi ma si configurano come un«esperienza generale». Nel saggio lautore si rivolge a un «tu» che, ovviamente, rimane indefinito. Il testo assume così il carattere di una conversazione con chiunque sia disposto ad ascoltare il vissuto di qualcuno che è «incalzato dalla storia». Il carattere dialogico e quello testimoniale rendono evidente quanto Anders sia alla ricerca di una scrittura che «raggiunga la gente di oggi». Nel suo insieme, lattenzione alla «sostanza» dellesperienza dellemigrante e ai destinatari conferisce al testo una straordinaria attualità. Felicemente a cavallo tra letteratura e riflessione filosofica, il testo di Anders sa andare direttamente al cuore dei problemi più significativi connessi alla «miseria» dellemigrazione: di quella che i migranti subiscono e di quella a cui non dovrebbe essere indifferente chi si ritrova nelle mani il potere di concedere loro il «permesso di vita».
Anonimo -