La voce soave parve a Massimo quella che aveva udito, nella notte, alternarsi colla voce di don Aurelio. Salutò imbarazzato, guardando la signora come uno che si scusa di non riconoscere chi gli parla. Gli stava davanti una nobile figura di donna fra i cinquanta e i cinquantacinque anni, pallida, quasi olivastra, dall'aria sofferente, dai capelli interamente bianchi, dai grandi occhi luminosi, molto giovani ancora, spirante dignità signorile e dolcezza dai modi come dalla voce e dal parlar lento.
«Sono amica di don Aurelio» diss'ella, sorridendo. «Siamo passati di qua insieme iersera, colla speranza di vederla, ma Lei dormiva già.»
Massimo confessò che aveva veduto dalla finestra una figura nera e una figura bianca.
«Infatti» disse la signora «avevo uno scialle bianco. Lei va da don Aurelio? Ci vado anch'io.»
Massimo s'inchinò, la interrogò, più cogli occhi che colla bocca.
«Allora Lei?»
«Vayla di Brea» rispose la signora col suo dolce sorriso. «Don Aurelio Le ha scritto qualche cosa di me? E il mio nome Le è riuscito nuovo? Affatto nuovo?»
Massimo riconobbe umilmente che gli era riuscito nuovo.
«Vede» riprese la signora, «io mi sento un poco nonna con Lei, quasi. Sua madre non era una Vittuoni? Non aveva nome Rachele? Sono stata in collegio con Sua madre a Milano, da madama Bianchi Morand. Sua madre era delle piccole, io ero delle grandi. L'avevo molto cara e mi divertivo qualche volta a fare la mamma, con lei.»
Si avviarono insieme sulla stradicciuola che, a due passi dal cancello, entra in un fresco di ombre, fra i castagni grandi della costa precipitante al burrone onde salgono i colpi misurati e sordi delle turbine di Perale.
Anonimo -