DAL LIBRO: GIORGIO (visibilmente irritato, ma sforzandosi di restar calmo). - Signore, io non vengo a chiedervi l'elemosina: io vengo ad offrire l'opera mia e (si ferma esitando).
SACCONI. - E? Che cosa vuoi dire! su parla. Che ti strozza? Quando vai schiamazzando per le bettole, allora non ti manca la parola? Infingardo... (Giorgio diventa livido ed i suoi occhi, quasi suo malgrado, si fanno minacciosi. Nicola getta alternativamente al padrone ed al figlio sguardi supplichevoli. Sacconi ha notato l'irritazione di Giorgio, si fa istintivamente indietro e cambia tuono.) Parla franco, non ti riguardare. Che mi pigli davvero per un tiranno? A me piace che ognuno possa dire le sue ragioni. Che diavolo! non stiamo mica sotto l'Austria. Su! Che cosa volevi dire?
GIORGIO (con accento cupo, staccando bene le parole). - Volevo dire che anche quando mi avrete pagato, sarete sempre voi che mi resterete debitore.
SACCONI (pigliando un tuono bonario). - Testa matta, sempre colle stesse idee! Tu pensi sempre a quello che guadagnano i padroni, e non pensi ai capitali che i padroni impiegano, ai loro rischi, al lavoro di testa che debbono fare. Tu non pensi che se non ci fossero i padroni gli operai morirebbero di fame. Che cosa faresti tu, che non hai un soldo, se non ci fossimo noi per fornirti il legno e gli arnesi, e per mettere in commercio i mobili che tu fai col nostro legno e coi nostri arnesi?
GIORGIO (sempre cupo). - GiĆ , ma se il legno e gli arnesi
Anonimo -