I saggi, le recensioni, le letture di devastante arguzia e le scazzottate letterarie di Martin Amis sono dispacci provenienti da un'epoca in cui la critica
era, sí, una faccenda molto seria, ma anche maledettamente divertente. Lungi dall'essere l'estenuato rituale di un laboratorio (come a volte è oggi nelle
università) o il proseguimento della pubblicità con altri mezzi (come a volte è sui giornali), la critica era il fronte in cui la letteratura incontrava la società, il campo di battaglia e la posta in gioco nella guerra dei significati.
Un'epoca, ad esempio, dove la recensione - il piú umile ma allo stesso tempo
il piú puro dei gesti critici - non era la mera ostensione di un gusto, ma l'occasione per misurare il talento individuale dell'autore sullo sfondo del canone, e
l'intelligenza non rispondeva a nessuna legge se non a quelle della letteratura.
Però Amis fa anche un'altra cosa in questo libro, forse la piú preziosa. Ci ricorda che quell'epoca non è ancora finita. Nessuna passione, di certo non quella
Anonimo -