Somiglia alla storia delle storie, questa che Sebastiano Vassalli racconta del povero Yoshua, sembrerebbe quindi un'ennesima riscrittura di colui che ha segnato il mondo occidentale in due epoche distinte, di cui il prima e il dopo non sempre hanno riscontri convincenti, poiché, al di là di una speranza riposta fuori dell'esistenza, dolori e ingiustizie persistono, identico è il male. Yoshua, figlio di un Dio probabile o incarnazione prima del puro folle di tutte le fiabe, vive una vita che si conclude nel sangue e nell'orrore, non dissimile dalle molte che lo scrittore ha già narrato, come se ogni vita scontasse la pena che spetta al mito. Ma, nel romanzo, il capitolo dell'arresto del protagonista si apre con una considerazione sul sogno che svela al lettore la possibilità di interpretazioni diverse, dentro quella storia nata tra umili personaggi, i trucioli della falegnameria, l'odore del pesce, la fame, la stanchezza delle strade, la prigione e la morte violenta, oltraggiosa. Se tutta la vita è sogno, un sogno eterno e continuo, gli uomini illusi e grotteschi che seguono le promesse di un incerto Messia o applaudono il Papa che benedice dalla camionetta, appartengono alla stessa illusione di chi crocifigge o spara. E la notte del lupo altro non è simbolicamente che questo urlo della storia, che si ripete uguale e variato, una lesione del male che soltanto chi racconta e racconta può credere di curare, come Sheherazade rinvia l'esecuzione. Così Vassalli affianca al protagonista il suo speculare avversario, un Giuda calunniato ma perverso, perché il male non è che un bene rovesciato, e dalla cronaca si sposta nella leggenda e parte per un'avventura tutta sua attraverso metamorfosi e salti temporali, durante i quali il lettore si accorga che l'avvincente narrazione può anche contenere una morale implicita, quasi idealistica: quella di non credere alla realtà esterna e ai miti imposti, ma piuttosto alle nostre tortuose infantili follie.
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