Quando la protagonista ("la donna") parte per Asmara, sa solo che va a fare una visita a un vecchio amico vagamente innamorato di lei che insegna nel liceo italiano ("il ragazzo che aspettava qualcosa"), un modo come un altro per sfuggire all'orrore delle feste di fine anno- o forse per chiarire la sostanza di un legame difficile, troppo simile all'amore per esserlo davvero. Ma sarà proprio lui, l'amico, che la guiderà, nei modi cerimoniosi e sommessi di un'archetipica necessità, all'incontro con un soldato del contingente di pace, che ha tatuato sulla spalla destra san Giorgio, uccisore del drago. I tre si addentreranno così- tra gli abbagli necrotici delle province dell'Ovest e le sfocate visioni della laguna di Massawa, le feste tribali a Barentù e gli incantesimi apotropaici di una fattucchiera- in un dedalo tragicomico di malintesi e maldestrezze che ha, al tempo stesso, l'andamento di un vaudeville e di un dramma amoroso, e al culmine del quale alla protagonista accadrà, come a una derisoria reincarnazione dell'eroina tolstojana, di desiderare la morte ai bordi di una ferrovia sulla quale non passano più treni.
Come ben sanno i lettori del suo primo romanzo, "Lourdes", Rosa Matteucci possiede la rara capacità di giustapporre e sovrapporre il pathos e il grottesco senza diminuirne la carica, anzi esaltandola. E per questa via raggiunge un'accorata, lancinante percezione di quel fondo oscuro e doloroso che sta dietro a tutto.
Anonimo -