Alla fine di settembre del 47 dopo Cristo Cicerone e Giulio Cesare si incontrarono a Brindisi: l'oratore dopo la sconfitta del partito senatorio attende, con incertezza angosciosa, le decisioni di Cesare circa il proprio futuro; il generale è reduce dalle vittorie di Farsalo e contro Farnace re del Ponto. L'incontro, improntato a grande cordialità, segna la fine del periodo più travagliato e umiliante della vita di Cicerone, e prepara il suo rientro a Roma. Qui Cicerone si dedica a opere retoriche e morali, e patisce la nuova impossibilità ad esercitare liberamente il proprio diritto di parola. Ma uno spazio di azione sembra infine concretizzarsi nella difesa della causa degli esuli: Cicerone sfrutterà i propri legami col partito cesariano per ottenere la riabilitazione degli ex pompeiani, e impiegherà la sua influenza per dirottare la clemenza che il dittatore adotta come programma di governo verso il superiore disegno di concordia morale e civile di cui avverte tutta l'urgenza. In tale contesto si collocano le orazioni pronunziate da Cicerone in ringraziamento dell'avvenuto perdono del senatore Marcello, uno dei più potenti oppositori di Cesare; in difesa di Quinto Ligario, accusato di aver tramato con Giuba re di Mauretania ai danni di Roma; e in difesa di Deiotaro, un ex pompeiano che aveva progettato, senza successo, l'omicidio di Cesare. I tre discorsi segnano però non soltanto il ritorno di Cicerone all'azione politica, ma anche il documento di una svolta nei rapporti tra cittadini e giustizia. Nelle arringhe dell'antico partigiano delle libertà repubblicane si invoca infatti la giustizia non come un diritto garantito dalle leggi, ma come risultato della clemenza del dittatore. E proprio la clemenza si rivela dunque la negazione stessa del principio democratico. Edizione con testo originale a fronte.
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