È possibile essere di sinistra e insieme reazionari? Si può, come pensava Pasolini, fare un uso rivoluzionario della tradizione? Bruno Arpaia crede di sì e in questo libro, una provocazione, un pamphlet, o forse solo una messa a fuoco necessaria, argomenta il perché. Parte dai fatti della più recente cronaca politica per ricavarne una via di rinnovamento per la sinistra, l'indicazione di una svolta che sia culturale ancora prima che politica. Ma soprattutto si interroga, chiamando in causa i più diversi interlocutori, su ambiti e concetti che una sinistra pigra e conformista sembra avere regalato alla destra. A cominciare dalla denuncia dell'Io, che già Gadda aveva bollato come "il più lurido dei pronomi", per arrivare a un'analisi del liberalismo di cui la sinistra, nata per dire Noi, ha quasi inconsciamente introiettato le mitologie: prima fra tutte quella di Progresso. Non si tratta di rimpiangere lucciole, arcolai o navigazioni a vela, tanto meno di rifugiarsi in idee massimaliste, da "marxismo neanderthal", o di sposare la sinistra liberal che adesso passa per innovatrice, e che in realtà è vecchissima, almeno quanto Adam Smith. Si tratta di affrontare "alla radice", vale a dire con coraggio e responsabilità, anche i temi più rischiosi e complessi, dalla democrazia alla comunità, dall'individualismo ai diritti. "Far finta di essere sani", come cantava Giorgio Gaber, non salva dalla malattia. Servono diagnosi precise e approfondite, che permettano di affacciarsi sul futuro senza dimenticare il passato. "Sinistra reazionaria, l'abbiamo definita. Ma voi chiamatela come vi pare" scrive Arpaia. "Non è questione di nomi. E' questione di non lasciar spegnere la poca speranza residua. Perché i peccati contro la speranza sono i più terribili, i più catastrofici: sono gli unici che non hanno né perdono né redenzione."
Anonimo -