C'è un grande scrittore viennese - dopo Joseph Roth, Schnitzler, Kraus, Altenberg - che aspetta ancora di essere conosciuto e riconosciuto fuori dai Paesi di lingua tedesca: Alfred Polgar. Forse nessuno come lui apparteneva così intimamente alla fisiologia di quella città, al suo ritmo, al suo respiro. Il fraseggio di Polgar è un incanto che si piò intendere, apprezzare, soprattutto camminando tra il Graben e la Hofburg. Polgar parla di uno spettacolo teatrale o racconta una breve storia o divaga in margine a temi disparati o disegna un ritratto o esamina un libro, senza mai far pesare ciò che dice. Sulle effimere colonne dei giornali, accanto ai fatti di cronaca, egli si sente più a suo agio che sulle pagine delle più nobili riviste letterarie. Eppure le sue parole sono il risultato di una prodigiosa "riduzione delle cento righe in dieci righe". Come disse una volta Franz Kafka, in Polgar "sotto il guanto glacé della forma si nasconde una volontà forte e intrepida". Lo avvertirono subito i più diversi e i più grandi fra gli scrittori di lingua tedesca suoi contemporanei, da Joseph Roth a Benjamin, da Broch a Musil. E oggi è maturo il tempo perché si torni a capire quanta novità si nasconde nelle pagine di Polgar, quanto prezioso sia il suo understatement, quanto elegante il suo passo. E forse si potrà anche contare su una grata comprensione della sua poetica, che si compendiava tutta in una frase: "La vita è troppo per la forma letteraria lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in libri ampi e lunghi".
Anonimo -