Per Agamben le picaresche peripezie di Pinocchio non sono quelle cui deve sottoporsi l'iniziato per acquisire una dottrina o una scienza più alta, ma quelle di un essere sdoppiato che si trova a vivere in due mondi paralleli (burattino e uomo; burattino e animale), e in grado di rappresentare il mistero dell'esistenza solo in modo inconsapevole. Perché possiamo portare il mistero dell'esistenza solo se, come il ciuco in Pinocchio, non ne siamo consapevoli, solo se riusciamo a convivere con una zona di non-conoscenza, immemorabile e vicinissima. Questa zona in cui ci teniamo in rapporto con qualcosa senza averne coscienza e comando, è il burattino, che per questo diventa asino, e porterebbe beatamente il suo mistero, se gli umani non intervenissero ogni volta coi loro arnesi pedagogici e mercantili. Pinocchio è sempre messo di fronte all'alternativa di tornare (a casa dal padre, con fate, grilli parlanti e maestri) o a quella di andare avanti per assecondare ostinatamente il suo modo di essere. Due direzioni opposte, l'inautentica e l'autentica, confliggono per quasi tutto il libro, finché a un certo punto non coincideranno, non tanto perché Pinocchio ha ceduto alle pressioni dei babbi e dei grilli parlanti, ma perché, abbandonando la terra e buttandosi in mare a nuotare "alla ventura", si è liberato per sempre della possibilità di distinguere fra il ritorno e il progresso, fra l'autentico e l'inautentico.
Anonimo -