Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d'Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. E un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un'intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. E un poliziotto corrotto, ama la bella vita. Però ha talento. Mette un tassello dietro l'altro nell'enigma dell'inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav'uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l'unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida ("in natura la morte non ha colpe"), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.
La nostra recensione
Il vicequestore Rocco Schiavone è fatto così. Prendere o lasciare. Trasferito da Roma ad Aosta per ‘eccesso di giustizia’ (ha massacrato di botte un trentenne che violentava ragazzine, ma quello era figlio di uno importante...), non è che sia da considerare proprio uno stinco di santo e nemmeno il massimo della simpatia. Anzi, per dirla tutta, Schiavone è scorbutico, irriverente e corrotto, al punto di concedersi perfino qualche traffico semi-illecito di tanto in tanto: non è l’adamantino difensore della legge, no, per lui la legge è un pretesto, quando non addirittura un fastidio o un ostacolo. Eppure, difficilmente sbaglia un colpo. Le indagini per omicidio le sa condurre con acume, intuito, decisione. Anche se al momento, scaraventato da Trastevere alle nevi alpine, il suo umore è sempre più nero, come le ombre del suo passato, che riemergono con il volto della moglie Marina che, s’intuisce, lui sente sempre ancora accanto a sé mentre invece... Forse si capirà che cosa è successo nelle prossime avventure di Schiavone. Ma adesso è lì da solo e per sua fortuna qualche bella donna su cui l’occhio può indugiare con atteggiamento smaccatamente maschilista non manca nemmeno ad Aosta. Il candore della neve fa da contrasto con il sangue dell’omicidio e anche con i ricordi di Schiavone che ripensa alla sua amata Roma, ne rimpiange il caos e la sporcizia, eppure lentamente sembra entrare perfino in sintonia con la gente e i luoghi, se non altro perché l’indagine gli dimostra che la neve non è sempre così candida e sotto l’apparente nitore delle persone alberga, lì come altrove, un bel carico di fango. Antonio Manzini fa esordire un nuovo polizotto sulla scena del giallo italiano con schemi ormai consolidati, si potrebbe dire: il medico legale brillante ed eccentrico, l’assistente sveglio e l’agente pasticcione, il questore sprezzante, il magistrato altezzoso e così via. Come al solito tocca al protagonista dare l’impronta al racconto e Schiavone, ve lo assicuro, si distingue da tutti gli altri, nel bene e, soprattutto, nel male.
Anonimo -