"Blaise Cendrars è stato il grande avventuriero della letteratura moderna, l'eterno nomade, vorace, curioso, affabulatorio oscillante fra la Legione Straniera e il 'music hall', fra le roulettes degli zingari e la pampa, fra la moviola e la Transiberiana. Da quando scappò di casa, nel 1903, a sedici anni, la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari, lo ha immerso in mondi sbarrati e cifrati per gli estranei, dove però si trovava ogni volta ad abitare con naturalezza. Nelle ""Rapsodie gitane"" (1945) Cendras traversa a zigzag la sua vita - e mai come in queste pagine lo sentiamo presente, in tutta la densità della sua persona. Qui Cendras si abbandona senza ritegno all'arte della narrazione orale, in cui sapeva maestri i suoi amici gitani, quando si raccontano le storie della tribù, nelle veglie notturne accanto al fuoco. Vivere non basta, bisogna raccontare. Così in mezzo a fascinose disgressioni, maestose anse, fulminee deviazioni, lo seguiamo mentre evoca figure incancellabili: l'eccentrico poligrafo Gustave Le Rouge e i suoi armadi a specchio, la messicana Paquita ""strega depravata"", dal colossale patrimonio, con la sua sbalorditiva collezione di bambole di cera, il gitano Sawo e le sue atroci storie di vendette, rivalse, gelosie tribali. E qui la letteratura, che Cendrans aveva finto di voler abbandonare, si prende la sua tarda vittoria: perché ogni storia lievita e si dilata di là da ogni possibile documentabilità biografica. C'è qualcosa di continuamente eccessivo e improbabile e, insieme, di palpabilmente vero in ciascuna di queste 'rapsodie'. Forse anche perché ci arrivano traversando una vita che era tutta una affabulazione. E, ci ricorda un personaggio di Cendras, ""quando uno racconta, ricama su qualcosa di già ricamato. Così la verità viene chiusa in una rete da cui non scapperà più""."
Anonimo -