Richard Cobb appartiene alla specie rara e preziosa degli storici-scrittori, come Michelet o Burckhardt. Così è stato definito una volta "il Goya del nostro mestiere". Impaziente e beffardo verso ogni gabbia ideologica, instancabile scavatore di archivi, Cobb ha mirato in tutta la sua opera - e mai così chiaramente come in questo libro - a scrivere una storia pullulante di storie, una storia che mostri come i Grandi Eventi irrompano nella vita dei singoli o da questi vengano elusi o respinti. Il suo orecchio pretende ancora di percepire le discordanti pulsazioni dei calendari privati sotto l'opprimente 'grande ala della storia'. Unendo sarcasmo e senso pratico, Cobb spiega già nelle prime righe di questo libro perché si è sentito attratto dalle vicende del Controterrore: "Gli storici dell'individualità, oltre che quelli della bizzarria e dell'eccentricità estrema, si troveranno molto meglio a trattare il Controterrore che non il Terrore burocratico dell'estate 1794. Qui almeno non c'è un grigio concetto di unanimità, non c'è un modello fisso, non c'è l'aspirazione a un'individualità destinata a sommergere tutti i 'traits' personali nell'affettazione irreggimentata della Repubblica delle Virtù o nel totalitarismo militare dell'odiosa Sparta di cartapesta auspicata da Saint-Just. Si potrebbe dire che ci furono tanti controterrori quanti controterroristi, e per motivi quasi altettanto numerosi: motivi personali, regionali, viscerali, rispettabili, criminali o tribali". In filigrana, fra queste righe, il lettore di Cobb ricorderà allora altre righe, memorabili, dove questo selvatico 'nemico del metodo' ha raccontato una volta come nacque la sua vocazione di storico. Dopo l'insana proliferazione di chiacchiere e trinceramenti di giudizi sulla rivoluzione francese in occasione del bicentenario, tanto più salutare apparirà tuffarsi nelle pagine di questo libro per capire come respirarono, come approfittarono, come patirono tanti testimoni e attori di quegli anni [...]
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