Questo libro mostra con una certa evidenza, e fin dal sottotitolo, l'intenzione dell'autore di tornare a puntare i riflettori sul linguaggio della scena del primo periodo dell'operatività artistica di Carmelo Bene. Troppi lavori, egli ancora in vita e dopo la morte, sono state concepiti con l'intenzione di esaltare l'epoca successiva della sua elaborazione attorico-registica e troppo, a parere dell'autore di queste note, si è insistito sulla poetica in sé con l'intenzione non sempre implicita di esaltare l'attore magnifico 'elevandolo' a filosofo mentre questa mostra tutta sua reale grandezza proprio, e soltanto, se la si mette in rapporto con l'operazione scenica che ne consegue: è lì che si riscontra un elemento di forza, non certo impercettibile, che muove da un'intenzione ben precisa dell'artifex di voler creare un'espressione scenica che sia antagonistica a quella del tempo essendo il suo artefice antagonista anche e proprio allo spirito di quel tempo. Quando questa spinta propulsiva nei confronti dell'arte del teatro, e poco più tardi del cinema, viene intenzionalmente smussata e, per così dire, addolcita, le cose cambiano. Il resto del discorso, che non può essere in alcun modo conclusivo, è nel libro.
Anonimo -