La possessione e la trance da possessione sono state considerate a lungo fenomeni di pertinenza prevalentemente 'religiosa', 'politica' (i culti di possessione come forma di protesta o di resistenza culturale dissimulata) o, alternativamente, 'psicologica' (espressione ritualizzata di desideri inconsci, valore terapeutico dei riti di possessione, e insieme, disturbo dissociativo, 'sindrorne'... ). Tuttavia solo un approccio che riconosca la natura irriducibilmente polisemica e plurale dei rituali di possessione, e restituisca valore a quelle espressioni 'più ordinarie' non necessariamente correlate al tempo rituale (alla possessione 'manifesta', dunque), permette di comprendere per intero il dinamismo storico che caratterizza i culti di possessione e le loro tecniche. Sottratta a una interpretazione univoca, restituita alla molteplicità delle sue espressioni, la possessione - qui analizzata anche nei mutevoli scenari della contemporaneità: contesti migratori, conflitti bellici ecc. - si rivela come una potente 'machine à penser', "buona per pensare" l'alterità, il potere, il sacro, il passato e il presente. Nonché come un complesso 'dispositivo mnemotecnico', decisivo tanto nella riproduzione di memorie individuali o collettive quanto nella realizzazione di 'altre' forme di coscienza storica. Protagonista a lungo rimosso di queste strategie è il 'corpo': luogo in cui si condensano miti, saperi, retoriche, memorie culturali ma anche conflitti e contraddizioni, come le biografie dei posseduti stanno a testimoniare.
Anonimo -