Nel 1964 un giovane studente americano, Mario Savio, diventa uno dei leader del Free Speech Movement allUniversità di Berkeley in California. Chiede per sé e per i propri colleghi studenti universitari il diritto alla libertà di espressione e di parola, aprendo la strada per altre battaglie in favore dei diritti civili.
Poco più di 50 anni dopo, unaltra generazione di giovani studenti universitari americani chiedono invece qualcosa allapparenza di opposto, con un nuovo lessico per definire queste richieste: safe spaces e comfort zones dove sentirsi al sicuro da discorsi troppo urtanti, speech codes per regolamentare lezioni e dibattiti in università e trigger warning per essere avvisati da parte dei docenti qualora intendano affrontare argomenti controversi o che in qualche misura potrebbero generare in loro una situazione emotivamente complessa. Una tendenza che si sta espandendo velocemente anche in Europa.
Ma che cosa accade alluniversità se, proprio in questo luogo preposto alla formazione dei giovani e alla ricerca, vengono limitati gli spazi di libertà per le idee e il dialogo? Quali sono i rischi di escludere dal dibattito accademico le questioni più controverse? Perché è importante, invece, dal punto di vista pedagogico, difendere e rilanciare la libertà di espressione non solo nelle università, ma in ogni sede dove è possibile?
Anonimo -