Quali sono i meccanismi che hanno portato a legittimare l'idea di usare la morte come 'pena'? Si può pensare di uccidere per fare giustizia? E come si può infliggere, senza sentirsi artefici di un'aberrazione, la più crudele delle torture, quella che differisce l'attuazione della pena, in attesa di una sua improbabile sospensione? Questo libro nasce con un orientamento molto preciso: non tanto ricostruire la storia della pena di morte, quanto guardare alla morte come pena. Non è un gioco di parole. Accogliere il primo presupposto significa dare per indiscutibile la bestialità umana e accettare l'uccisione 'giudiziaria' di una persona come un fatto naturale e ovvio, che è sempre esistito, del cui svolgimento si narra la storia, cominciando dagli antichi egizi o dagli assiro-babilonesi e finendo ai giorni nostri. Guardare dal secondo punto di vista significa constatare come non sempre la pena di morte sia stata usata come pena, e individuare quando e perché un mezzo di tale brutalità sia stato utilizzato dal legislatore, esaltato dagli intellettuali, applaudito dalla folla, sanzionato, presentato e sentito come uno strumento consono alla civiltà e alla religiosità di un popolo. Visto così, il problema non è più prendere atto della bestialità umana, ma cercare di capire perché l'istinto omicida è stato sublimato in istituto giuridico e come un momento impulsivo e incontrollabile dell'agire umano sia stato trasformato in azione legale, razionalmente predisposta, regolata da precise norme e sanzionata con una sentenza. All'indomani dell'esecuzione di Saddam Hussein e alla vigilia di una ripresa della discussione in sede Onu sull'applicazione generalizzata di una moratoria per la pena di morte, questo libro propone con grande rigore storiografico una riflessione aggiornata su un tema che non potrebbe essere più attuale.
Anonimo -