"Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amor del vero, o di quello ch'io credeva tale" scrisse Alfieri a proposito dei trattati "Della tirannide" e "Del Principe e delle lettere". I due testi, composti da un autore non ancora trentenne impegnato a riflettere sui grandi temi della libertà individuale e del ruolo del letterato in un mondo avvelenato dalla tirannide, nacquero infatti sotto il segno della più accesa passione. Progettati tra il 1777 e il 1778, entrambi ripresi e portati a compimento a circa un decennio di distanza, i due libri si collocano in un momento chiave dell'attività alfieriana. Li preparano anni di appassionate letture (da Plutarco agli illuministi francesi, fino agli ammiratissimi "Discorsi" di Machiavelli); li affiancano altre opere alfieriane di estrema tensione. Nello stesso arco di tempo nascono infatti alcune tragedie, tra cui "La congiura de' Pazzi" e la "Virginia", di ispirazione libertaria e antitirannica; e altri testi dove è vitale il problema del rapporto tra potere e libertà (in particolare il "Panegirico di Plinio a Traiano"). Conclusasi con la rielaborazione dei due trattati, Alfieri stende rapidamente il dialogo "La virtù sconosciuta", pubbblicato nel 1789 (lo stesso anno in cui vedono la luce "Della tirannide" e "Del Principe e delle lettere"). Il legame non è casuale. Protagonista del dialogo è Francesco Gori Gandellini, morto da poco, uno degli amici senesi che avevano condiviso, dieci anni prima, gli slanci e le riflessioni politiche dell'autore. E il testo rappresenta una tappa successiva nel percorso allora avviato. L'antica tensione utopistica lascia questa volta spazio a una riflessione amara e pacata: nell'angoscia dell'inazione - perché all'uomo non è data, al presente, altra possibilità - resta il conforto della virtù, una pratica preziosa e nascosta, non rivolta ai riconoscimenti del mondo, ma orientata verso il futuro.
Anonimo -